15 maggio di 165 anni or sono. La spedizione garibaldina in Sicilia è in pieno svolgimento e, per dirla nella maniera alquanto retorica di Giuseppe Guerzoni, sodale e accreditato biografo di Garibaldi, “al tocco dell’11 maggio 1860 i novelli Argonauti afferrano gloriosamente la lor Colchide agognata”. Insomma, sbarcano a Marsala, pochi minuti prima dell’arrivo di due incrociatori borbonici, lo Stromboli e la Partenope, che, quasi per dovere d’ufficio, tirano qualche sconclusionata e inoffensiva bordata. Allontanatisi presto dal porto trapanese rimasto piuttosto freddo di fronte alla straordinaria novità di quello sbarco, il giorno 13 i garibaldini sono invece accolti festosamente a Salemi dove, nel pomeriggio del 14, Garibaldi assume la dittatura dell’isola in nome di Vittorio Emanuele. All’alba del giorno successivo, i Mille, diventati circa due mila per l’afflusso di alcune squadre di picciotti siciliani, muovono verso Calatafimi. Qui li attende il generale borbonico Francesco Landi, a capo di circa tremila uomini, attestati sulla collina di Piante di Romano. Alle 10:00 del mattino i Napoletani attaccano: scendono nel vallone che li separa dalle Camicie rosse che hanno preso posizione sulle alture di Pietralunga. I Garibaldini li aspettano. Sulle prime senza sparare, poi aprendo il fuoco e iniziando una controffensiva che costringe il nemico a ripiegare sulle posizioni di partenza. Si trovano, quindi, a contrastare con un avversario in posizione elevata e favorita distribuito su ben sette terrazzamenti da conquistare uno a uno: in più di un’occasione conoscono momenti di forte criticità al punto che Bixio interpella Garibaldi se non sia il caso di ritirarsi. È allora che Garibaldi avrebbe pronunciato la celebre frase: “Nino, qui si fa l’Italia o si muore!”. Alle 15:00 del pomeriggio lo scontro raggiunge il suo acme, fino a quando con un ultimo eroico sforzo i garibaldini conquistano l’ultima altura. Equivalenti le perdite dall’una e dall’altra parte: circa 200 uomini tra morti e feriti. Al tramonto i Borbonici si ritirano a Calatafimi, un borgo in provincia di Trapani, e nella notte l’abbandonano, prendendo la strada per Alcamo, fatti segno di imboscate delle popolazioni e delle fucilate a tradimento dei franchi tiratori. Seguono rappresaglie feroci che non risparmiano vecchi, donne e bambini segnatamente in Valguarnera e nell’abitato di Partinico. Intanto, nelle prime ore del 16 maggio le Camicie rosse entrano, a loro volta, a Calatafimi e, senza por tempo in mezzo, il giorno successivo proseguono per Alcamo e Palermo.
La vicenda militare di Calatafimi è solo un episodio della spedizione dei Mille, ma importante e significativo. Perché mentre accredita Garibaldi come condottiero invincibile agli occhi dei siciliani e dell’opinione pubblica italiana ed europea, accresce la sfiducia, i timori e le titubanze tra i Borbonici. A Napoli per far fronte alla situazione sostituiscono il poco determinato e incerto luogotenente generale Paolo Ruffo, principe di Castelcicala, con un nuovo commissario regio straordinario, il vecchio generale Ferdinando Lanza, palermitano, ma da disprezzato dagli stessi siciliani per le sue fin troppo note scarse qualità militari. Fin da subito timorosa e quasi vocata alla sconfitta la sua “lettura” dei rapporti tra le forze antagoniste subito dopo Calatafimi:
Essendo quasi tutta la Sicilia insorta, è rimasta interrotta ogni comunicazione, giacché i telegrafi visuali ed elettrici sono distrutti; i compagni d’arme sono uccisi per strada ed i corrieri e spie che si spediscono non più ritornano a Palermo. Palermo è repressa dalla forza, ma aspetta il momento favorevole per insorgere, laonde si è proclamato di nuovo lo stato d’assedio… Per tali motivi non trovo altro mezzo di mia parte che raggranellare tutte le truppe che si trovano sperperate e stanche del continuo cammino.