Caro direttore,
provo a raccogliere la sfida - seppure non appartenga alla schiera degli uomini (e delle donne) che fanno politica a proposito della solita disquisizione sui sostantivi. Non conosco la signora Beatrice Venezi (non ho seguito neppure il Festival di Sanremo), ma apprendo che è stata protagonista di un debutto come direttrice di orchestra.
È brava? Non lo so e non ho sentito commenti su questo aspetto. Ho invece letto, di sfuggita, le polemiche sull'affermazione della stessa a proposito del fatto di non gradire il sostantivo femminile, ma di preferire quello maschile di direttore. Ho anche letto le prese di posizione da parte di chi ha rimbrottato la stessa per questa sua volontà. Non capisco. O meglio, non capisco perché tutta questa disquisizione debba trasformarsi in una guerriglia, peraltro fra donne.
Credo sinceramente - e lo dico con assoluta convinzione - che la vera conquista per le donne, debba transitare dalla reale possibilità di autodeterminarsi; rispetto a questa importante battaglia, aderisco in piena coscienza.
Perché è giusto e civile. E perché è l'ora di smetterla con le discriminazioni.
Ma non sono assolutamente d'accordo che questa battaglia passi necessariamente da declinare al femminile ruoli e cariche delle donne. Leggo, incredulo, quanto riporta il vocabolario Treccani: "Direttrice: donna che svolge la funzione di direttore, etc...". Dovremmo iniziare da lì, dunque. Dal considerare direttrice non la declinazione al femminile di direttore.
L'autodeterminazione delle donne è un fatto, come dicevo, di civiltà e giustizia, che siamo ancora costretti a sostenere perché sappiamo come in certe professioni, la possibilità di carriera per una donna sia estremamente faticosa e fonte di discriminazione. Qui dobbiamo lavorare. E dovremmo farlo, iniziando proprio dalle organizzazioni che sventolano la parità di genere e poi, al proprio interno, favoriscono il ricorso a strutture che pagano al ribasso i dipendenti, prevalentemente donne. Oppure, come nell'ultima compagine di governo, l'imbarazzante condotta di tutti i partiti, uno fra tutti il Pd.
Del resto, lo stesso Pci che sosteneva cose giuste per la nostra società, aveva un rapporto con il genere femminile non proprio così... aperto.
Anzi, non prevedeva "sbavature"... Basterebbe chiedere a Massimo D'Alema, per esempio. Questo non vuol dire allontanare o prendere le distanze dalla necessità di lavorare sulla parità di genere.
Dico solo che la battaglia deve essere condotta non sulle sfumature linguistiche ma sui contenuti. Chi interviene issando subito la propria bandierina, di solito ha il tempo e le possibilità, anche economiche, di disquisire sull'argomento: che è serio, certo. Ma che non può, non deve appartenere a una fazione.
Mi piacerebbe che la lotta per l'autodeterminazione delle donne potesse essere combattuta da tutte le donne: anche da quelle, tante, precarie, che non hanno il tempo di leggere i giornali perché costrette da contratti capestro a ubbidire e a essere davvero sottomesse, per bisogno. Oppure dalle commesse che in tempi "no Covid" si vedevano negare il diritto a stare con la propria famiglia perché utilizzate a seconda di ciò che prospettava il mercato.
Che la signora Venezi possa decidere di definirsi "direttore", che i parlamentari (e le parlamentari) lavorino per rimuovere gli ostacoli, che le giornaliste lottino contribuendo a fare emergere il vero impegno. Ma quella delle declinazioni, io credo, è una strada utile solo a intestarsi una battaglia che appartiene a una visione della società nuova e progressista. Una battaglia che rischia di essere solo velleitaria e non di sostanza. E che non passa certo dal dire avvocato o avvocata, direttore o direttrice, prefetto o prefetta.